Tornato a casa, mi rifugiai velocemente nelle mie stanze.
Non avevo nessuna voglia di incontrare i servi e fui davvero lieto che
nessuno di loro mi si parasse davanti nel percorso dall’atrio alle
stanze. Li avrei cacciati in malo modo se solo li avessi incontrati o
avessero chiesto la più banale delle domande.
Per prima cosa lavai il viso.
Avevo camminato velocemente e in modo nervoso, e nella calura
dell’estate che si avvicinava feroce, dando ai marmi dei palazzi luce di
ghiaccio, ero sudato. Fradicio.
Gettai la tunica per terra e versai acqua nella bacinella di rame che
uso per le abluzioni.
Di solito era Armida a prendersi cura di questa incombenza. La vecchia
schiava usava tessuti di lino e spugne dei mari d’Ellade per detergere
stanchezza e sudore dal mio corpo e dal mio viso. Ma non avevo voglia di
vedere nemmeno lei, la più fidata, lei che da sempre era ospite nella
mia casa, al mio servizio.
Così presi cura da solo, cosa a cui non ero più avvezzo da tempo, di me
stesso.
E mi versai da solo acqua, con un mestolo, lungo la schiena, sul petto.
E godetti del refrigerio dell’acqua fresca spillata dall’orcio di
terracotta che ne teneva la temperatura sempre gradevole anche nelle
giornata più calde dell’estate.
Poi immersi nuovamente più volte le mani e portai quanta più acqua fui
capace, nella loro conca tracimante, al viso. Mi asciugai con un telo di
lino e indossai una tunica vecchia, quella che più di tutte mi era cara
e che amavo, carica di ricordi di giornate e di battaglie interminabili
al Senato, ormai troppo lisa, purtroppo, per essere portata senza essere
additato per indigente nella vita pubblica.
Ma che io amavo per la sua vita e le sue ferite in trama e ordito,
inflitte da un’esistenza lunga e consumata.
Ero non più accaldato, dopo il beneficio dell’acqua sulle carni, ma
ancora dentro di me ancora bollivo.
Per la risposta di Militone, il vile.
Nemmeno atteso che terminasse l’intera giornata successiva al nostro
incontro per dare risposta alle mie richieste. L’aveva fatto nel modo
più vigliacco, mandando un ambasciatore, un servo di Paolo Latino che
gli era stato lasciato, per le incombenze della casa, insieme alla casa
stessa nel suo soggiorno romano.
Conoscevo bene il servo e, vedendolo arrivare, mi aspettai che mi
portasse una missiva, con prezzo del riscatto e condizioni, o quanto
meno a voce mi portasse la risposta che attendevo, magari rinviando ad
un successivo incontro con Militone e Gaia la definizione finale della
transazione.
Invece no.
L’unica comunicazione che doveva portarmi era stata una nuova
convocazione a casa dei due. Senza alcun accenno a ciò che attendevo di
sapere, con indiscutibile e trasparente ansia.
Per questo arrivai alla casa di Paolo Latino assai agitato. Camminai
veloce e teso nei pensieri, e all’entrata mi accorsi che le mie vesti
erano zuppe di sudore, sulla schiena e ai fianchi, incollate alla pelle,
sotto le braccia. Avevo i muscoli delle braccia così tesi, seppure
inconsciamente, da provarne dolore.
Il servo latore della convocazione mi aveva seguito quasi a fatica. Era
anziano, dal passo malfermo sulle strade della città, sempre meno curate
e ormai sconnesse dal transito dei carri, per la crisi economica dello
stato. Mi superò solo alla soglia, accelerando con affanno, per
introdurmi nella casa, con un ultimo guizzo di rispetto per la mia età,
la mia persona, e il mio incarico in Senato. Poi andò a cercare i suoi
temporanei padroni.
Mi fecero attendere.
Un tempo indefinibile che a me parve quasi due terzi di una intera ora.
Poi entrarono, loro due, senza Aminah. E quell’assenza della schiava
oggetto della transazione mi inquietò all’istante. E fece contrarre
oltre ai muscoli delle mie braccia anche il mio costato.
Mi salutarono con un sorriso che a me, per diffidenza e premonizione,
parve subito strano e sottile. Mi fecero accomodare nella stanza in cui
il giorno prima avevamo avuto la nostra discussione.
“Mio caro amico” esordì Militone, dopo una pausa che a me parve eterna e
interminabile.
“Mio caro amico” ripetè con voce ancora più sottile.
“Gaia ha pensato a lungo, e io pure.” Un’altra pausa e io avevo sempre
più dolore nei muscoli di ambo le braccia, tese per tenerle ferme
trattenendole, ai fianchi.
“Alla fine abbiamo convenuto che non esiste prezzo per i servigi che
Aminah rende a Gaia e a me” e dicendolo si trattenne a stento dal
ridere. Quell’ “a me” aveva un tono così viscido e infame che mi dovetti
forzare, a stento, per non levarmi dalla panca, ove mi ero seduto per
celare la tensione che avevo dentro, e non saltare al collo dell’ uomo
che giocava con me e i miei pensieri e desideri.
“Abbiamo anche pensato se chiederti davvero la tua nuova schiava, si
chiama Rebecca se ricordo bene”,finse di ricordare a mala pena,” da
aggiungere al prezzo del riscatto, ma poi abbiamo deciso che questo
commercio in alcun modo è possibile da realizzare”
“ Tu che hai conosciuto Aminah bene, scegliendo di farne dono a Gaia
proprio per le sue grazie e il suo piacere, converrai con noi che
separarcene sarebbe un imperdonabile peccato e che non esiste prezzo per
le sue arti amorose, le sue carni fresche, la sua dedizione….” E rise.
Fu in quel momento che realizzai che la fuga a me di Aminah lungo la
strada il giorno prima, avvenuta in modo sin troppo facile, era stata in
realtà da loro favorita e agevolata, per prendersi maggiormente gioco e
vendetta su di me. E fu in quell’istante che decisi.
Che non sarebbero tornati, né padre né figlia, a Gaeta vivi.
E che avrei avuto Aminah in qualsiasi modo. Anche abusando della mia
carica e del mio potere. In fin dei conti non sarei stato certo il primo
nobile o senatore a vedere ignorati e passati sotto silenzio per
rispetto del titolo, paura dell’influenza e della vendetta i suoi
crimini o reati. Né il primo né probabilmente l’ultimo.
Avrei inventato,escogitato, realizzato il modo.
Ero uscito dalla casa senza replicare, con lo stomaco contratto
dall’umiliazione e dalla rabbia. Sotto gli sguardi loro che sapevo,
senza vedere, maligni e soddisfatti e compiaciuti del risultato del loro
agire. Avevo quasi corso, verso la mia casa, sudando e rendendo fradicia
la tunica mia migliore.
E ora, seduto, i piedi nell’acqua che avevo versato, lavandomi, al
suolo, mi sentii quasi perso e inerme di fronte all’ira e alla sconfitta
patita.
Rebecca mi raggiunse mentre sedevo, con la testa tenuta tra le mani, e
lacrime di rabbia all’angolo degli occhi che nemmeno loro, rifiutandosi
di uscire, si utilizzavano almeno a darmi sfogo.
Trattai male Rebecca, entrata senza che io nemmeno la chiamassi.
La respinsi in malo modo.
Lei non si dette per vinta, e senza una parola slacciò la fibula
d’argento scura che teneva chiusa la sua veste, lasciandola cadere al
suolo.
In piedi, davanti a me, nuda, era bellissima. Coi capelli sciolti perché
non si era premurata di legarli come desideravo fossero in mia presenza
sempre.
La pelle coperta delle mille macchie piccole, il suo arcipelago di nei.
Su cui avevo perso occhi e dita nell’amore, percorrendo rotte
invisibili, e cercando, unendoli con la pressione delle dita, facendo
schiarire la sua pelle al loro passaggio, di scrivere, come i bambini
sulla sabbia, il mio nome. L’anello d’oro alle labbra del suo sesso era
lucido e spiccava, sul candore della sua pelle così chiara, lì, dove
mai, dal suo arrivo a Roma almeno, era stata baciata da alcun sole.
Mi scivolò vicina, i piedi nudi nell’acqua che avevo sparsa dappertutto
e copiosa la suolo. L’anello era vicino alle mie labbra, lei in piedi e
io seduto.
Avevo liberato il capo dalle mani e rialzato il viso.
Lei allora sporse il pube, inarcò la schiena e offerse il ricciolo
d’oro, l’unico ricciolo di un pube rasato da Armida con gran cura, alla
mie labbra e al loro bacio.
Affondai il viso lì. Inebriando le narici del suo odore.
Morsi l’anello, lo tirai tra i denti. Cercai di penetrarne l’asola con
la punta della lingua, accorgendomi che, nel farlo, lei si bagnava tra
le labbra, densa e copiosa, e un rantolo le usciva dalla gola.
Succhiai l’anello, cercando di trascinarmelo fino in fondo alla gola. Il
labbro del suo sesso si tese, seguì la forza della mia suzione, mi
scivolò docile tra le labbra e i denti. Lo strinsi.
Lei spinse il pube.
Mi ubriacai così.
Della sua fica, del suo anello, del suo sapore e del suo odore.
Persi la cognizione di dove finisse il piccolo anello d’oro e dove
cominciasse la sua carne. Labbra, denti e lingua si profusero in mille
capriole.
Poi allargò le gambe, scostò le cosce, appena si fu liberata dal giogo
della mia bocca, si mise a cavallo delle mie cosce e su di me, seduto,
si sedette. Facendomi scomparire, con una carezza umida e stretta,
caldissima, nel suo ventre. Fino a posare le sue cosce fresche e nervose
a cavallo delle mie, di fronte.
Salì e scese sui muscoli dei polpacci fino a farmi godere.
Poi attese che io l’allontanassi da me, dopo aver avuto da lei il mio
piacere.
Non dimostrò però stupore, né, d ‘altro canto, gratitudine alcuna.
Quando, invece di rimandarla alle sue stanze, io, ancora dentro di lei,
perdendo di tensione e raccogliendo sul mio pube il perdersi caldo del
mio stesso seme, che cominciava a scendere e colare, la strinsi a me.
Aderì al mio corpo. Ne imitò il ritmo del respiro, adeguandosi ad
alternarsi al prendere vigore e svuotarsi dei miei polmoni. Si lasciò
stringere e mi strinse lei.
Mi leccò gli occhi.
Come un felino, rimosse con la lingua dai miei occhi quelle lacrime di
rabbia che non erano riuscite prima ad uscire.
Quelle che lei aveva trasformato in piccole gocce salate e calde di
piacere, libere di lavarmi, come nessuna acqua di orcio o catino mai
avrebbe potuto fare, finalmente davvero, cuore e viso.
Poi si lasciò baciare sulle labbra, cosa che non ero uso fare, e mi
lasciò sentire, rubandolo alla sua lingua, il sapore liberato del mio
sale.
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